Tracciabilità del Brunello: le ultime ricerche in campo genomico e chimico-analitico

C’erano alcuni dei ricercatori più noti e importanti d’Italia al convegno che si è tenuto oggi al Teatro degli Astrusi di Montalcino, promosso dal Consorzio del Brunello: “Tracciabilità del Sangiovese a Montalcino: ricerche e sperimentazioni per l’identificazione dell’origine”, in cui sono state messe a confronto le linee di ricerca più avanzate che si stanno muovendo dentro a questo percorso affascinante, che ha nella metodica genomica e in quella chimico-analitica i suoi punti di riferimento. La domanda a cui si è cercato di rispondere è se sia possibile rintracciare in un vino, magari invecchiato, il vitigno e/o i vitigni di origine. La risposta è affermativa, ma la ricerca più avanzata non ha ancora individuato un metodo assolutamente infallibile per questo tipo di rilevazione. E quali sono i metodi più efficaci per questo tipo di indagine? Sia l’analisi del profilo antocianico che il test del Dna non sono infatti infallibili.
“L’analisi del profilo antocianico delle uve è ormai un metodo consolidato – ha spiegato Fulvio Mattivi, ricercatore di Fondazione Edmund Mach Istituto di San Michele all’Adige – tanto è vero che per i vini giovani la cromatografia liquida è un metodo già validato dall’Oiv (Eno 22/2003)”. E per stabilire il profilo antocianico nei vini invecchiati? “Il metodo e la ricerca su cui stiamo lavorando – continua Mattivi – parte da un’analisi “in tracce” perché gli antociani reagiscono con le altre sostanze e quindi vengono come “inquinati”. Siamo però arrivati a correlazioni statistiche significative dei pigmenti antocianici con quelli dell’uva anche nei vini invecchiati monovarietali, in testa i Brunello di Montalcino. È ancora un work in progress, ma una certezza nella comparazione di campioni ottenuti da blend non ci sarà mai. Un po’ della nebbia si è però diradata – ha concluso Mattivi – e questo ci fa ben sperare per il futuro della nostra ricerca”.
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Sul fronte dell’analisi genomica, l’amplificazione degli acidi nucleici (metodo PCR), ovvero il test del Dna praticato in molte delle recenti indagini su fatti di sangue, tanto per capirci, “è un test in vitro che ricostruisce il Dna e che è molto usato e possiede già valore legale – spiega Rita Vignan,i ricercatrice di Serge-genomics dell’Università di Siena – e sta progressivamente diventando un metodo che riesce a portare dei risultati anche nel caso in cui il Dna sia estremamente compromesso, come dimostrano le sue applicazioni in archeologia e paleontologia. In questo senso è possibile applicarlo anche al vino, benché sia ancora aperto il dibattito sulla effettiva possibilità di estrarre del Dna dal vino, visto l’alto rischio di contaminazione con altri acidi nucleici (lieviti , batteri, ecc.). Nei vini monovarietali anche invecchiati abbiamo ottenuto risultati significativi e il test del Dna funziona, mentre sui blend è praticamente impossibile scendere sotto il 10% di utilizzo di un’altra varietà. Insomma – conclude Vignani – la fase attuale dovrebbe invitarci a lavorare per far incrociare i vari metodi, perché un metodo scientifico infallibile non esiste”.
Per Stella Grando, ricercatrice di Fondazione Edmund Mach Istituto di San Michele all’Adige, invece, “il Dna è una molecola molto difficile da recuperare nel vino. I risultati scientifici del test del Dna sul vino non sono riproducibili e non si prestano a determinazioni quantitative. Evidentemente però ci sono degli interessanti sviluppi, specialmente nel campo della meta genomica e dell’analisi microbiologica del Dna delle altre componenti del vino. Naturalmente – conclude Grando – un conto è un lavoro per determinare uno strumento di controllo, un conto è un lavoro per ampliare la conoscenza. Quest’ultima mi sembra la vera attività del ricercatore”.
Da ultimo, ma non per importanza, lo stato dell’arte sull’analisi dei rapporti tra isotopi di bioelementi (idrogeno, carbonio, ossigeno) che viene utilizzata ormai da vent’anni per verificare l’autenticità del vino e l’origine dichiarata in etichetta. “Le verifiche – spiega Federica Camin, ricercatrice di Fondazione Edmund Mach Istituto di San Michele all’Adige – si basano sul confronto dei valori isotopici del campione con quelli di una banca dati ufficiale: ogni anno un numero di campioni rappresentativo della produzione vinicola di ciascuno stato membro viene ufficialmente raccolto ed analizzato. La banca dati permette di avere annualmente i dati isotopici di riferimento di campioni autentici, e su questa base di definire i limiti legali dei dati isotopici per i prodotti di ciascun Paese e ciascuna sottozona e nel caso di un numero significativo di campioni, di ciascuna denominazione”.
Uno sforzo anticipatore quello del Consorzio del Brunello che mette in campo anche una richiesta chiara e inequivocabile: perché il vino tricolore riesca ad elevare il suo livello d’eccellenza la ricerca scientifica è decisamente insostituibile. Certo, l’impegno economico in progetti analoghi è oneroso, ma necessario se vogliamo che i nostri prodotti siano sempre più capaci di rappresentare una garanzia indiscutibile e un segno distintivo del made in Italy per i consumatori di tutto il mondo.

 

 

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