Dalla Sila a Montalcino, per coltivare vino e bellezza: la storia de La Torre

©️ Giulia Novelli

Narra la leggenda che vicino a Sant’Angelo in Colle, nella zona sud di Montalcino, vi era una torre, appartenente alla famiglia Sassetti, la quale un giorno scoprì dell’oro nelle fondamenta e decise di distruggere l’intera costruzione per prendere il bottino e fuggire a Firenze. “Me l’ha raccontata Livio Sassetti – spiega Luigi Ananìa, attuale proprietario dell’azienda agricola La Torre, che prende il nome proprio dalla leggenda – non so quanto sia credibile come storia, ma so che era abitudine nascondere l’oro nelle fondamenta delle torri e a Firenze esiste un Lungarno Sassetti, anche se non saprei se ci sono dei nessi con i Sassetti fuggiti da Montalcino”. Comunque, realtà o finzione che sia, nello stesso punto in cui vi era la torre adesso sorge un altro tipo di “oro”, il pregiato vigneto di Brunello, impiantato da Giuseppe Ananìa, agricoltore calabrese emigrato a Roma nel secondo Dopoguerra per dare un futuro migliore ai propri figli. “Mio padre aveva boschi e un allevamento di bovini in Sila – racconta Luigi Ananìa – a lui piaceva lavorare in agricoltura ma lo vedeva come un mondo che stava finendo. Il suo sogno era che noi diventassimo professionisti mantenendo al tempo stesso un pezzo di terra, da coltivare per hobby. Si spiega così l’acquisto del podere a Montalcino. Ma il vino non può essere un hobby, ti ci devi dedicare con tutto te stesso. Così, dopo la laurea in Agraria a Firenze con tanto di tesi sul Brunello, mi sono convinto a fare il viticoltore”.

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Nel 1976 l’azienda La Torre, che fino a pochi anni prima era un podere mezzadrile con allevamento di bestiame, alberi di ciliegio, coltivazioni di grano e colture promiscue di olivo e di vite, versava in condizioni di abbandono. La casa colonica fu gradualmente restaurata (dalla stalla fu ricavata la cantina, dal fienile il salotto) mantenendo però lo stile originario. “Era un’Italia completamente diversa, direi felicemente rurale – sottolinea Ananìa – un giorno arrivarono in Ape una signora e un signore, avranno avuto 90 e 65 anni. Mi dissero che avevano vissuto qua in 18. A testimonianza di come era diversamente abitato il territorio agricolo della zona”.

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Quando arrivò a Montalcino, Luigi Ananìa, giovanissimo, unì le conoscenze universitarie e l’esperienza empirica dei lavoratori del luogo. “I miei maestri sono stati i vecchi contadini, con la loro passione e la cura precisa e puntuale della vigna e del vino”. Tra questi maestri c’era Ampelio, cantiniere di Lisini, al quale è dedicato un Igt de La Torre, blend di Sangiovese, Ciliegiolo e Alicante. Le 3.000 bottiglie annue di Igt Ampelio si aggiungono alle 14.000 di Rosso di Montalcino e alle 13.000 tra Brunello annata e, solo negli anni eccezionali, Brunello Riserva. 36 gli ettari del podere, dei quali 5,7 vitati (4,9 a Brunello).

©️ Giulia Novelli

L’export incide per il 90%. “A livello commerciale ho avuto molta fortuna. Nel 1988 in viaggio di nozze a New York un mio amico direttore di un ristorante molto rinomato mi presentò vari importatori tra cui Rosenthal, che tutt’ora compra metà produzione. Poi esporto in Canada, Corea, Germania, Singapore… In Italia poco ma per scelta, da ragazzo mi piaceva viaggiare e frequentare le fiere all’estero”.

Per oltre trent’anni Luigi ha fatto il pendolare, tra Montalcino e la Capitale. “Perché non mi sono mai stabilito in modo permanente nella terra del Brunello? Per tre motivi: come carattere sono un po’ nomade, ho una figlia che vive a Roma e qui in azienda non c’è mai tempo per scrivere”. Già, la scrittura è il secondo lavoro di Ananìa. Tra i diversi volumi pubblicati troviamo un libro che raccoglie le interviste di calabresi emigrati nel Secondo Dopoguerra a Buenos Aires e alla Fiat di Torino e un altro di racconti sul vino. L’ultima fatica, in pubblicazione a marzo 2021, si intitola “Bestiario umano. Storie e riflessioni sugli esseri viventi” (Edizioni DeriveApprodi), scritto a quattro mani con lo psichiatra Nicola Boccianti.

Di recente Luigi Ananìa, insieme a personalità provenienti dal mondo universitario, ha creato Land.is, un’associazione culturale nata con l’obiettivo di salvaguardare il testucchio, l’albero su cui la vite si arrampicava per crescere. “I filari di vite maritata al testucchio caratterizzavano le campagne della Toscana, del Lazio e dell’Umbria fino agli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento. Poi la moderna viticoltura, col passaggio dalla cultura promiscua alla cultura intensiva, ha cancellato questo paesaggio, modellando uno nuovo che ben conosciamo. Il paesaggio, alla stregua dell’arte, è una creazione degli uomini che, oltre alla necessità di viverci, hanno coltivato la bellezza. Sono rimasto affascinato dai racconti degli uomini che ho conosciuto e frequentato a Montalcino. Quando lavoravano riuscivano a coniugare la necessità e la bellezza. Un mondo che è andato via via assottigliandosi. Oggi la figura dell’agricoltore è completamente diversa e la campagna è meno frequentata. Ma il senso di bellezza rimane intatto. E a Montalcino si respira ogni giorno”.